Intro

Questo è il mio diario ed è scritto sulla strada. Parla del tentativo di realizzare un sogno: fare il giro del mondo via terra, senza prendere aerei. Mollo tutto e parto, in solitaria. A contatto con la Natura, senza bucarla dall'alto. Pulito, lento e circolare. Un'avventura d'altri tempi per sentire la terra cambiare sotto i piedi giorno dopo giorno, per attraversare gli oceani a bordo di cargo mercantili, come fantasticavo da piccolo, con acqua e solo acqua ovunque intorno. Uscire, chiudere la porta ed unire il vialetto di casa mia con la via della seta, Karakorum e Himalaya, India, Cina, le risaie del Mekong, i templi buddhisti con le rovine Maya, Macchu Picchu e la Tierra del Fuego, la Panamericana...
Perchè si parte ? Forse per riempire una mappa vuota, o per perdersi o forse solo per giocare in un prato più grande. Non lo so. So solo che questa volta non mi voglio dare nessun limite.
Che bello dirlo, questa volta il limite è il mondo
Almeno ci provo


giovedì 24 dicembre 2009

La Casa del mulino (...)

Le insegne dei negozi.
Mi sveglio e tutte le insegne dei negozi hanno qualcosa di strano, disorientante.
Sono in italiano.
Tutte.
Bar degli Amici.
Carmelo Parrucchiere delle Stelle.
Cioccolateria Peyrano.
Il cielo fa davvero schifo, uno strato di grigio pantegana coprente che avvolge in un abbraccio di pulviscolo oleoso tutte le ossa dal cranio fino all'alluce rendendole fredde, di quel gelo interno che vorresti strappare via ma rimane attaccato e piu' ti scuoti e piu' lui penetra e i colori si arrendono, il bambu' non organizza seminari in citta' cosi' loro non si piegano ma si spezzano frantumandosi, nebulizzandosi in sfumature cromatiche metallizzate razionali e tristi come le mamme automobili che hanno partorito lo strato grigio pantegana coprente.
Torino.
Bentornato.
Che io capisco le nuvole nere, la drammaticita' del nubifragio prossimo venturo, l'orizzonte cupo e la pioggia di giorni e giorni ma non questa perenne cataratta atmosferica che occlude la vista e la voglia di respirare.
Sono entrato in Val Padana, nella bottiglia d'orzata.
Le mie origini.
Quasi quasi torno indietro e mi reincarno noce di cocco a Salvador do Bahia.

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martedì 22 dicembre 2009

Un Volkswagen da deserto (...)

Fumetti.
Coperte di lana, tisana e fumetti che escono dalla bocca ad ogni espiro che facciamo.
Nella gamba sinistra un paio di piccoli muscoli che non sapevo di avere si irrigidiscono e si staccano come iceberg galleggiando sottocutanei, mentre scrivo seduto sul divano.
Foche ed elefanti marini si chiudono al calduccio in frigo.
Sono a casa di Eva.
Albinyana, colline dietro Tarragona, Catalunya, Spagna.
Europa.
Neve.
Ma quanta neve e' scesa.
Lo shock termico dal Sahara mi distrugge un po' e non so che cosa fare quando finira'.
Quando finira'.
La malasuerte termino'.
Dalla Mauritania al Marocco non esistono mezzi pubblici.
Per attaversare la frontiera ed i dieci chilometri di terra di nessuno devi vagare per Nouakchott aspettando che si riempia qualche jeep e pagare il prezzo bianco oppure trovare qualcuno che stia risalendo verso il Vecchio Continente e fare appostamenti ai papabili, cecchino dello scrocco quattroruote.
Il mio bersaglio e' proprietario di un furgoncino Volkswagen ed alloggia nel mio stesso ostello. Una gola profonda mi spiffera che dovrebbe partire domani mattina alle sei.
Indovina un po' la prima faccia che ha visto appena finito di stropicciare gli occhi.
L'italiano con la faccia da pazzo e gli occhi spiritati dalla febbre chiede un passaggio fino a Dakhla nel Saharawi marocchino e lui senza batter ciglio accetta.
Non ci credo, la fortuna ricomincia a fluire.
Immediatamente prima che cambi idea lancio il mio zaino dentro il van e mi lego.
Partiamo.
Lui si chiama Fred, sta tornando da due mesi passati in Senegal ad imparare con un feticheur l'arte del gri-gri, l'amuleto scacciamale, che poi rivendera' a Marsiglia. Il furgoncino e' super accessoriato con frigo, fornello, mensole ed un super letto a due piazze.
Statuine ed ossa sparse ovunque.
Sul sedile del passeggero un pianta dai fiori fucsia stroboscopici ed un baobab.
Un baobab.


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lunedì 14 dicembre 2009

Guarda che qualcuno ti sta avvertendo con evidenti segnali che la strada intrapresa non piace al dio dei pellegrini (...)

Quanti evidenti segnali bisogna ricevere prima di capire che la strada intrapresa non piace al dio dei pellegrini ?
Forse non dovrei tornare.
Pensavo che dopo lo scampato pericolo dell'incidente, costato la vita a nove mucche innocenti, tutta la potenziale sfiga che ogni cammino possiede fosse stata dilapidata in un colpo solo.
Invece no.
Invece no.
Mi sveglio e sono sdraiato per terra, zuppo di benzina, al buio, nel mezzo del Sahel, freddo deserto e con davanti una corriera che mostra le sue parti intime, ruote all'aria.
Sta arrivando il bus di riserva, il muletto che ci portera' a Bamako.
Rimontare in sella dopo che si e' caduti da cavallo.
Subito.
Mi rimetto nello stesso identico posto, sempre incuneato in fondo nell'angolo del finestrino destro, sempre con l'anca tra la decima e l'undicesima costola del vicino, la rotula che ricomincia a scavare un incavo dentro lo schienale legnoso del sedile di fronte.
Tutti muti ed infreddoliti, neri di paura.
Dormo.
La mattina mi ridesto ed e' subito fumo.
Una nebbia acre, diversa dalla polvere che abitualmente mangio.
E' un attimo e tutti tossiamo e respiriamo con molta fatica, l'autista cieco dall'interno inchioda e correndo verso la portiera scende, scendiamo in furia per non soffocare.
Uno dei tre aiutanti sale a controllare la sorgente di questa malanebbia, stacca tutti i sedili posteriori fino ad arrivare al motore e scopre un cavo di acciaio arroventato che lavorando da sotto sta bruciando il fondo del bus.
La furbizia avanza galoppando verso di lui mentre per strappare la causa del danno stringe tra le mani qualche centinaio di gradi.
Ma arriva tardi.
Non lo sapevo, sulla pelle nera le scottature lasciano ustioni bianche.
Un tatuaggio involontario, una bella riga candida e dritta che prosegue attraversando da un palmo all'altro.
Risaliamo.
La mia borsa blu e' scomparsa.
Agenda, diario, il completo in stile africano, dentifricio, spazzolino.
Il pulman riparte.
Chiedo all'autista di fermarsi, ripeto all'autista di fermarsi, poi urlo.
Tutti si voltano verso di me.
Settanta persone che mi guardano incredule.
Il tubabu e' impazzito.
Il bus si ferma un'altra volta, spiego quello che mi manca, che probabilmente e' finito sotto quando sono stati tolti i sedili.
Un quarto d'ora di discussione.
Il mugugno dei passeggeri.
Alla fine si convincono a staccare di nuovo i sedili, la botola si riapre, la borsa ed il suo contenuto sparso sporcano di carta e cotone tutto l'olio che ricopre il motore.
Ma manca la camicia del completo africano.
Cerco la camicia, sparita, volatilizzata, teletrasportata su Klingon, passano altri minuti, alcuni mi toccano, altri mi spingono, un tono stufo pienelepalle mi dice lasciala come regalo, e' Allah che lo vuole.
Un nigeriano brutto pelato e soprattutto grosso proprio grosso alza moltissimo la voce e urlando sputacchi minaccia in inglese l'autista di muovere this fucking bus perche' lui non puo' perder tempo, che ha del businness da fare e move, fucking shit, move.
Cioe', abbiamo tipo dodici ore di ritardo e ti arrabbi se perdiamo un quarto d'ora a cercare la mia camicia, che tra l'altro e' proprio bellina nuova mai usata.
Vabbe', visto che me lo chiedi gentilmente, andiamo.
Sedili rimontati, si riparte.
Dieci minuti e buchiamo.

venerdì 11 dicembre 2009

Pioggia di mucche (...)

Quasi muoio.
Decido di tornare a casa e cominciano a piovere mucche.
Il piano prevede una serie di linee rette che da Timbuktu portino fino a Recco, passando da Ciserano.
Timbuktu-Bamako. Bamako-Nouakchott. Nouakchott-Dakhla. Dakhla-Tangeri.
Dopo c'e solo lo stretto di Gibilterra da attraversare per riapprodare in Europa.
Spagna, Francia, Italia.
Le rotte nella mente sono facili da disegnare, prendi una matita e tracci, l'unico rischio e' distrarsi al passaggio di una regina del decollete' e finire in universi paralleli per qualche istante, ma poi con una gomma cancelli e ripensi.
Quando pero' si materializzano diventano dei bus che viaggiano di notte senza illuminazione, a velocita' folli in mezzo a campi coltivati a capre, dromedari e pastori in bicicletta.
Piazzaci me in uno di questi bus, nel sedile in fondo, quello coi posti tutti attaccati che nelle gite e' occupato dai casinari, ideale per stonare le bionde trecce o mostare i poster con le tette nude agli automobilisti. Incuneato a destra, attaccato al finestrino, con la rotula compressa nel comodocomodissimo legno compensato dello schienale davanti e l'anca infilata in un angolino dentro al costato del mio vicino sinistro.
In questa ultima fila dovremmo essere in otto, otto !, ma siamo in undici, undici !, perche' una maman bella ciccia ha comprato un solo posto, d'angolo a sinistra, per se' e per i suoi tre figli.
Fuori e' buio pesto, non avendo bionde trecce, occhi azzurri, arance rosse e davvero nessun fiore da mettersi in in bocca nessuno canta, scorriamo in velocita' saltellando sull'asfalto medio cotto dal sole ogni giorno tutti i giorni.
Avendo dimenticato a casa tutti i poster di Cicciolina e Vampirella non rimane altro da fare che scrivere col portatilino una mail per Luce da spedire appena la rete di mamma Africa lo permettera'.
Alla parola Aaaaaaammm, sull'ultima emme, un colpo sordo.
Pum !!!
Belin che e' ?
Pum !!! di nuovo e un'altra volta ancora.
L'autobus comincia a sbandare, si inclina dalla mia parte, deraglia a sinistra, schiacciamo acciacchiamo qualcosa.
O qualcuno.
Pum !!!
Siamo una palla da bowling e perdo il conto dei birilli che abbattiamo.
Lisergici Lebowski.
Pum !!!
Continuiamo a svirgolare, una gimkana fast and furious ma l'autista non e' bello come gli attori belli, non conosce il copione e perde definitivamente il controllo.
Voliamo.

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giovedì 10 dicembre 2009

Timbuktu (...)

Amo questa vita.
Viaggiare.
Mangiare la strada, morderla.
Respirare ogni giorno aria divesa, come se il cielo fosse una piscina che la notte viene svuotata per essere riempita di nuovo la mattina.
Collezionare attimi di bellezza per un mosaico che lentamente vada a coprirmi gli occhi, che serva a riscaldarmi i motivi per cui valelapena, come fosse una coperta oculare da stendere quando sembra che intorno tutto ti venga addosso.
Cinque di mattina.
La grande moschea di fango Dyingerey Ber e' illuminata di giallo ed un muezzin tuona dal Medioevo il nome di Allah. Fedeli con tunica e turbante bianco si tolgono le scarpe e si inchinano dalla bassa porta per entrare a pregare.
Intorno e' solo deserto e le prime dune di sabbia.
Non si vedono da qui ma l'importante e' saperle vicine.
Timbuktu.
La bellezza di essere arrivato fino qui.
Via terra.
Il cammino prima della meta.
Respirare Timbuktu e' un piccolo sogno di bambino che si realizza.
Pochi luoghi come questo hanno eccitato la fantasia di viaggiatori, forse Samarcanda ed il Cipango, che pero' ora si chiama Giappone.
Per l'aura di mistero, per i racconti di leggendarie ricchezze, per la vaghezza della posizione, per il crogiuolo (il crogiuolo !) di razze a scambiare merci da tutto il mondo, per l'esotismo del nome.
Timbuktu.
Per secoli fu il piu' importante centro spirituale dell'Impero del Mali e del Songhai, che detennero il potere per lungo tempo grazie al controllo di due fondamentali risorse naturali, il fiume Niger, principale via di trasporto commerciale e una delle piu' fruttifere zone di miniere d'oro mai scoperte.

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lunedì 7 dicembre 2009

Sacchi di sale lungo il fiume Niger (...)

C'e' chi ha messo dei sacchi di sale sotto il mio culo.
Sto navigando lungo le acque placide del fiume Niger su una di quelle bagnarole di legno. Quelle che naufragano nei documentari.
Quei documentari che partono con un piano lungo, le ninfee riflesse, i campi di riso, i contadini con il cappello a punta per poi zoomare all'interno della grande piroga coperta, persone stipate, sardine sdraiate in fila senza spazio nemmeno per succhiare un filo d'olio d'oliva.
Sardine nere pressate a panino.
Pero' se stavolta guardi bene ti accorgerai di un nuovo pesciolino, che sono io, l'ingrediente bianco infilato dentro al sandwich.
Non siamo a norma di sicurezza ISO 9001, almeno per quest'anno.
Il fondo della pinasse e' riempito con comode tonnellate di sale sulle quali noi siamo stesi da un paio di giorni. Non e' come la sabbia, non riesci a dargli la tua forma.
Il tetto e' a forma semicilindrica, con le assi curve che sembrano delle costole di un animale preistorico viste dall'interno. Come essere nello stomaco della balena di Pinocchio con otto grilli parlanti africani.
I miei vicini di sacco di sale sono maestri di scuola primaria, novizi diretti verso la prima esperienza nel villaggio fluviale di Dire'.
Sfoggiano tutti dei buchi su camicie, pantaloni, giacche a vento.
L'educazione povera.
Mi sono imbarcato a Mopti, grande porto sul Niger.
Dove il fiume e' il centro nevralgico della citta', col gran marche' sulle sponde, le pinasse che partono ed arrivano sempre stracolme, pescatori su piroghe, file interminabili di anfore d'argilla, donne che lavano i panni e ragazze che si fanno la doccia.
Tranquillamente a seno nudo.
La parte piu' erotica, quella da coprire e velare con un vedononvedo sembra siano le anche ed il bacino.
Purtroppo rimango poco, vado verso una di quelle localita' dal nome magico, da mille ed una notte, una di quelle destinazioni da sogno avventuroso.
Seguo la corrente verso nord che mi portera' a toccare la capitale religiosa dell'antico Impero del Mali, proibita per secoli ai non mussulmani.
Timbuktu.
Dove il Niger fa un'ampia curva a gomito per poi scendere a sboccare dopo 4100 km, terzo fiume piu' lungo d'Africa, dopo il re Nilo e la regina Congo.
Una enorme U rovesciata di blu.

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giovedì 3 dicembre 2009

Nel paese dei Dogon(...)

Ho attraversato la frontiera col Mali dalla strada meno battuta della perniente battuta rete viaria del Burkina.
Scordati l'asfalto.
Da Ougu ore dentro scassatissimi furgoncini tipo Volkswagen anni settanta, col finestrino aperto soffochi per la polvere, col finestrino chiuso soffochi dal caldo e dal fumo di scappamento.
Domanda: quante persone possono stare dentro un furgoncino tipo Volkswagen anni settanta ?
Risposta: 31, 27 dietro e 4 davanti.
Giuro, wallahi.
Sette capre vive sul tetto chiuse nella loro comoda confezione di tela bianca grezza.
Mi fermo qualche giorno nel Paese dei Dogon.
I Dogon sono una tribu' che vive nel Mali centrale sopra e sotto la falesia di Bandiagara, un lungo altipiano a strapiombo.
A causa della conformazione geologica per secoli sono rimasti isolati e solo in tempi recenti sono balzati all'attenzione degli antropologi grazi al lavoro di un francese, Griaule, menzionato ovunque.
La religione dei Dogon e' animista e si basa sul pilastro che la terra, il sole e la luna furono creati da un essere divino maschile chiamato Amma, la parola che in parecchie religioni, in India per esempio, e' associata alla mamma'.
Amma creo' anche i primi due esseri umani che generarono otto figli, gli antenati dei Dogon.
Come per gli egizi, la stella Sirio ha un'importanza fondamentale nella loro cosmologia, la conoscenza e' a tal punto precisa che la tradizione orale da sempre dice che sia formata da tre stelle unite.
E' solo grazie a nuovi potenti telescopi che negli ultimi anni gli astrologi hanno scoperto che le stelle che compongono Sirio non sono due ma tre.
Le cerimonie Dogon sono quelle vere.
Per il raccolto, per la pioggia ma soprattutto per i funerali vengono indossate le antiche maschere tribali, piume, pelle dipinta e tamburi proprio come nelle pubblicita' Africa un mondo antico.
Purtroppo durante il mio soggiorno non muore nessuno.
Cinico.
Il miglior modo per visitare la zona e' camminando.

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lunedì 30 novembre 2009

Ouagadogou(...)

Non ho una niente da dire su Ouagadogou a parte che sono un bambino felice che alla fine raggiunge la capitale con il nome piu' fico dell'Atlante.
Avevo sei anni.
Ouagadogou, Burkina Faso, Giorno 443

domenica 29 novembre 2009

Punk animisti(...)

Nel villaggio di Oury sono tutti fatti, pallati, ubriachi aldila'.
Non esiste asfalto, solo polvere e fuori da ogni capanna la gente e' seduta in circolo, radunata a schiamazzare, sganasciarsi, ululare con la bocca aperta ed i denti esposti.
Un po' di saliva che cade a filo.
Stretta nelle mani una enorme ciotola di zucca, una calabasse, dentro la quale ristagna un liquido giallognolo dall'odore pungente e sciamanico.
Birra di miglio fermentato, il chapalow.
La gradazione alcoolica e' bassa, saranno un tre-quattro gradi, quindi per lasciare questa terra ne occorrono decine di litri.
Comunicare con gli spiriti di Madre Natura richiede parecchia pipi'.
Un deja-vu da Oktoberfest nera.
Due vecchiette con l'occhio liquido mi parano la strada e biascicando qualcosa in bambara si presentano offrendomi la prima calabasse, e ridono.
Profonde gengive nude.
Sto camminando in questo villaggio animista fuori da ogni rotta, dove Mario conosce un paio di artisti ma tutti sono artisti, scultori del legno oppure fabbri.
La figura del fabbro in questa zona del mondo possiede poteri magici, circondata dall'aura di mistero che dona il potere del fuoco sul metallo, il cambiare forma ad un materiale in natura impossibile da manipolare.
Le forgie di Oury sono millenarie.
Ogni famiglia e' proprietaria di una forgia.
L'epicentro del feticismo.
Che solo nel Vecchio e stanco Mondo Occidentale si e' trasformato in immagini di dominatrix in latex nero e frusta che obbligano inermi vermi nudi a leccare suole e tacchi a spillo.
Qui e' una religione potente.
Ogni abitante maschio e' un feticheurs o lo diventera'.
Nella religione animista viene attribuita una coscienza ad oggetti naturali, animali, alberi, montagne, fiumi, ognuno dei quali e' uno spirito con cui e' possibile comunicare attraverso la figura di connessione del feticheurs o juju. Ciascuna tribu' possiede i propri spiriti ed i propri antenati, simboleggiati attraverso totem, animali o loro parti, coccodrilli, piume di uccello, code di cobra. E' taboo far del male, mangiare, uccidere il totem.
Pero' se hai qualcosa da chiedere al tuo spirito, con tutti gli altri animali buoni da mangiare e' carneficina di sacrifici
Animisti furbi.
Polli, capre sgozzate, maiali che qui scorrazzano senza problemi.
Al banchetto del sacrificio partecipano tutti.
Esistono poi spiriti pret-a-porter indossabili facilmente per una continua e costante protezione su fortuna, salute, malocchio. Sono i feticci, oggetti di metallo o braccialetti di cuoio chiamati grigri, talismani elaborati dai feticheurs.
Oury e' potente.

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venerdì 27 novembre 2009

Tabaski(...)

Sotto un albero di mango un griot sta cantando le gesta del capofamiglia e di tutto l'albero genealogico degli ultimi secoli.
In una societa' dove non esiste la scrittura la figura del griot e' quella dello storico a cui viene consegnata la memoria da tramandare, ogni famiglia e' legata ad un'altra di cantastorie che tramanda parallelamente di padre in figlio le vite delle generazioni passate, sempre presenti ad ogni avvenimento importante per aggiungere nuove strofe alla canzone degli antenati.
Fotografi musicali.
Seguendo strane traiettorie melodiche il griot narra le vicissitudini del vecchio capo ormai cieco, che ascolta assorto e sembra quasi che spunti una lacrima.
O forse e' la cataratta del diabete.
La famiglia e' tutta intorno ad udire compresi due bianchi tubabu, il futuro sposo di una delle figlie ed un suo amico randagio.
Oggi e' festa grande, si celebra il Tabaski.
In Africa Occidentale il Tabaski e' l'equivalente mussulmano del nostro Natale e vuole ricordare la versione islamica di un racconto biblico su Abramo.
Allah chiede ad Ibrahim di sacrificare in suo onore il primo figlio Ishmael, avuto dopo tanti sforzi alla veneranda eta' di 86 anni. Ibrahim sta per eseguire senza lamentarsi quando un angelo lo ferma dicendo che la sua fede e' dimostrata e al posto del primogenito puo' ammazzare un agnello.
Ecco perche' nei giorni scorsi ovunque andassi c'erano sempre agnelli all'ingrasso, oppure caricati vivi su tetti di pulman o legati fuori dalle abitazioni.
La stessa fine che fanno i colleghi tacchini quando i loro padroni nordamericani vogliono ringraziare Dio.
Arrivare qui a Boromo e' stata una vera avventura.

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martedì 24 novembre 2009

Moschee di fango (...)

Sto dormendo in casa del primo capitato a tiro, su di un materasso buttato in una stanza spoglia, nuda di fango.
La casa ha una corte dove le donne preparano i pasti all'aperto su di un focherello di legna, tengono un bambino legato alla schiena e l'altro che e' da cambiare mentre uno sciame di teppistelli neri grida e corre piu' veloce della loro eco.
Ho lasciato Mario e il Peugeot 205 a Segoun, dopo Bamako, a casa del fratello di Ernest e ho cominciato a viaggiare solo, solo in balia dei mezzi pubblici africani.
Che vuol dire ore di sguardo pallato a fissare nel vuoto aspettando un bus che dovrebbe essere gia' qui da un paio d'ore, forse si e' rovesciato, forse ha finito la benzina, forse si e' accartocciato dentro un cammello, forse arriva inshallah.
Quando poi arriva inshallah sei seduto con cinquanta persone in uno spazio per quindici, le ginocchia che sfregano contro il sedile davanti e tredici molle nel culo.
Per finire con tredici ore di ritardo all'una di mattina all'incrocio per la citta' santa di Djenne, santamente costruita su di un'isola e raggiungibile solo con una santa piroga, la prima alle sei di mattina.
Mi accoccolo a lato di una mandria di futuri piatti del sacrificio che belano candidi ed incoscenti della prossima festa che gli stanno preparando e mi accoccolo all'aperto infinito orizzonte piatto augurando la buona notte ai pastori.
Il latte della nostra galassia lassu' stanotte e' bianco vergine come se non fosse possibile sporcarlo per l'eternita' mentre le stelle ci cadono dentro a goccia.
Plic.
Plic.
Plic.
Beeeeeee beeeeee vrooooooom beeeeeee Allaaaaah aaaakbaaar Allaaaah aaaaakbar vrooom.
Si svegliano tutti insieme, Dio, pecore e candelette di accensione e non mi resta che accodarmi e traversare le acque e godermi lo spettacolo delle prime ninfee in fiore, verdi corolle punteggiate da petali viola, a galleggiare leggere nell'acqua specchiata d'arancione d'alba.
Lunedi a Djenne e' giorno di mercato.
A Ciserano e' il mercoledi.

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domenica 22 novembre 2009

Dimanche a Bamako(...)

E' domenica ed intorno al mio letto Bamako si sta svegliando.
Sono in centro centro ma non ci sono Mc Donald, vetrine di Gucci o cattedrali gotiche. Nessuna Piazza Grande, nessuna via dello struscio. Nemmeno un edificio piu' alto di due piani.
Le strade sono di terra rossa e come fossero canali vengono tutte drenate dal fiume principale, l'unico viale d'asfalto.
Ragazze pompano l'acqua dall'unico pozzo del quartiere riempiendo infinite taniche gialle, che ritornano a casa una ad una in bilico su teste incuranti della gravita'.
Regine idriche.
Come modelle attraversano la strada vestite come se stessero camminando su una passerella della collezione primavera-estate 2010, non un dettaglio fuori posto, gonna lunga in tinta col fazzolettone in testa, orecchini e make up adeguati, bilanciamento perfetto del corpo, sguardo dritto e nonchalance. L'equivalente di una doccia in testa e nemmeno una goccia si azzarda a cadere.
Brillano di luce propria, un sole di pelle nera che al passaggio emana un'aurea di bellezza naturale che si apre il cammino tra spazzatura, borse di plastica nera, scarpe sinistre e capre.
Bambini sporchi di polvere e muco giocano a calcio usando un cartone mentre altri, quelli ricchi, corrono facendo girare pneumatici fin quando non vengono bucati dalle corna delle capre di cui sopra.
Mamme lavano nei fossi di scolo i primi panni della giornata.
Uomini al bancone della baracca di lamiera, bar dell'angolo, siedono davanti al cappuccino africano, nescafe' mischiato con latte disidratato.
Radio Liberte' suona la hit di Amadou e Marianne.
Le dimanche a Bamako c'est le jour de mariage.
La domenica a Bamako e' il giorno dei matrimoni.
La quiete dopo la tempesta.
Ieri e' stata una notte di fiesta.
Ernest ci guido'.
Appena arrivati il Peugeot 205 si impaurisce del caos della capitale e si spegne proprio davanti alla Missione Cattolica il posto piu' gettonato dai saccopelisti che pero', secondo imprevisto, e' tuttto occupato da un pulman di suore in gita.
Accampati nel bar di fronte, acchiappabianchi.
Problemi risolti.
Uno di loro In un attimo compare dal nulla un omone enorme, nero e con in mano solo una chiave inglese, una. Apre il cofano, abbassa una mazzata sul motore, scintille schizzano ovunque e al primo di giro di chiave la macchinina riparte.
Il voodoo del meccanico, ho paura dei particolari.
Un altro ci porta all'Auberge Lafia mentre un terzo da' il primo squillo al telefono africano, un passaparola in una citta' da un milione di persone in cui tutti sono in perenne movimento dove quello che cerchi passa di bocca in bocca ed in un quarto d'ora ti trovi davanti al nuovo magazzino di Ernest, proprio l'Ernest amico di Mario che cercavi tra i mille della metropoli.

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venerdì 20 novembre 2009

Tubabu (...)

La prima parola che ho imparato in bambara e' tubabu.
Significa bianco.
Perche' sono bianco.
Per la prima volta in vita prendo coscienza della mia mancanza di colore, del mio camminare pallido, dei miei peli visibili.
Sono i bambini che te lo gridano, ridono e puntano il dito verso la novita' che vedono passare in pantaloncini e con in testa una massa di capelli lunghi non nerocrespi.
Il diverso.
Quelli piu' temerari ti seguono e mettono la tua mano nella loro confrontandola increduli di fronte all'enorme mancanza di colore.
Altri rimangono a distanza e ti guardano col timore del questo qui non somiglia a mio papa'.
I piu' piccoli piangono.
Da noi, nelle storie del terrore e' l'uomo nero che viene di notte a prenderti per portarti via e mangiarti.
Qui e' l'uomo bianco.
Sono in Africa Nera, quella vera.
Sahara finito, ora e' Sahel, zona cuscinetto tra deserto a nord e savana e foresta tropicale a sud. La stagione delle piogge c'e' stata ed e' appena terminata, sembra addirittura con delle inondazioni. La siccita' e' scongiurata, per quest'anno. Tra la fine degli anni settanta e l'inizio degli ottanta qui non piovve per anni e fu una catastrofe alimentare. Il deserto avanzo' per decine di chilometri erodendo zone coltivabili. Come tuttora continua a fare, con l'aiuto di una delle piaghe bibliche che ogni tanto si abbatte in questa regione martoriata.
Locuste.
Chi le ha viste, Mario, mi dice che oscurano il cielo come fosse un' eclisse mobile e rumoroso.
Divorano tutto il divorabile annichilendo l'uomo, teoricamente qualche gradino piu' in alto di loro nella scala evolutiva ma senza difese da millenni contro questi sciami affamati.
Questi ultimi anni sono stati benevoli, ci sono stati raccolti e anche se la puzza di carogna a volte invade l'automobilina ci sono poche carcasse di animali.
L'erba e' giallo fosforescente e ci sono i primi alberi dopo giorni di sabbia, alcune acacia e i primi esemplari della pianta al contrario, quella che sembra sia rimasta incastrata dentro il terreno a testa in giu' nel tentativo di recuperare le cento lire cadute nel profondo, con i rami che sembrano radici esposte all'aria come se il vestito fosse scivolato in basso a scoprire le intimita', il re degli alberi africani, monsieur Le Baobab.
A volte in direzione opposta alla Peugeot 205, in velocita' sfrecciano correndo campi coltivati e gia' mietuti con avanzi, pochi molto pochi, di pannocchie di miglio, l'apporto di energia carboidrata piu' diffuso in questa parte del mondo.
I contadini vestono un cappello ad ombrello di paglia, come in Laos e Thailandia, alcuni con carretto e buoi, altri portando a spasso capre oppure dromedari e ormai tutti hanno la pelle nera.
Siamo entrati in Mali.
Nel villaggio di Nioro du Sahel il parrucchiere ci invita a mangiare e dormire a casa sua.
Una corte di capanne circolari.
Quelle classiche, da National Geographic, col tetto conico di paglia, costruite usando fango.
Noi uomini, solo noi uomini, ci sediamo per terra, da un vaso pieno d'acqua ci laviamo le mani e cominciamo a mangiare tutti insieme da un piatto comune, usando categoricamente la mano destra. Piatto del giorno, piatto di ieri, piatto di domani, cous cous di miglio con una salsa densa di verdura. Poi arriva il dolce, cous cous di miglio mischiato con una specie di yogurt dolce e leggero. Mahmoud ha una moglie e cinque figli, dice che puo' bastare, uno in piu' sarebbe troppo difficile da mantenere e vuole che tutti studino, che almeno sappiano leggere e scrivere in francese.
In Mali ci sono decine di dialetti ma le lingue utilizzate per comunicare universalmente sono due, il bambara per parlarsi e il francese per i documenti ufficiali, per giornali e telegiornali, per le lezioni scolastiche e per le pubblicita' dei telefonini che come al solito nei paesi sottosviluppati e' l'unico prodotto commercializzato sui cartelloni.

...continua

mercoledì 18 novembre 2009

Sahara on the road (...)

Ho attraversato il deserto del Sahara con una Peugeot 205.
Proprio come le antiche carovane di cammelli che trasportavano sale in cambio di oro.
Senza aria condizionata.
Senza autoradio.
Senza Gatorade al pinolo energizzante del Madagascar.
Le stelle mi stanno a guardare, dall'alto sussurrano qualcosa che fa brillare loro i denti, un soffio di buonanotte per un pellegrino accoccolato sotto la loro coperta di latte aspettando che arrivi il sonno, incapace di chiudere gli occhi prima di aver unito i puntini dall'1 al 145386453043594350.
Sono sveglio all'aperto sdraiato nel deserto, nel mezzo del nulla piu' pieno della mia vita.
L'insonnia della bellezza.
La pesantezza del grasso di capra.
A Tientane, Mauritania dura e pura di silice, il menu dello chef propone cous cous di miglio con tutti i pezzi smontati di una capra, cartilagini e cuore che si toccano, mangiato con le mani da un piatto comune, a gambe incrociate su di un tappeto dii fronte al pentolone che bolle sopra un fornelletto a cherosene, la signora velata che rimestola ed i suoi bambini strappati, ocra di sabbia e timidi che giocano con il mio lettore di musica.
Gli sparo Male di miele in cuffia cercando di inoculare i germi di un futuro rock mauritano.
Altri germi li ingoio tracannando zrig di latte di cammello gelato da cubetti di ghiaccio di pozzo.
Una sfida aperta al nano Cagarello.
Pero' c'e' da celebrare la fine del Sahara.
Me lo sono mangiato tutto.
Pensavo sarebbe stata una lunga serie di bus ed invece la mia corrente mi ha portato verso un' avventura alla Kerouac, on the road a cavallo del tropico del cancro.
Per caso, come sempre, come al solito ed un po' grazie alla mia faccia di tolla.
In coda all'ambasciata della Mauritania in quel di Rabat, la capitale del Marocco, aspettando con le mie fototessera fresche fresche che mi consegnassero il visto. Davanti a me due tizi parlano in spagnolo ed io mi intrufolo con la mia nuova lingua appena comprata.
Stanno viaggiando in macchina da Madrid, Miguel per schiarirsi la mente post-disoccupata e Mario per sposarsi.
Un viaggio verso un matrimonio nel Burkina Faso.
Non posso non unirmi.

...continua

martedì 10 novembre 2009

La porta dell'Africa (...)

Il sole bagna d'arancio le lenzuola del mare.
Muri che fan la parte dei duri ma salutando il sole come ogni sera piangono e le loro lacrime tingono di bianco le case.
Un muezzin dalla cima di un minareto grida che Allah e' akbar, Dio e' grande usando molte acca.
E' il primo ad annunciare la notizia.
Gli altri notiziari dell'Alto lo seguono a spaccare il muto cristallo del cielo con i loro proiettili vocali che si intersecano, si coprono, si accavallano urlando per annunciare lo scoop.
Una sinfonia cacofonica che si ripete cinque volte al giorno senza interruzione da secoli.
E' il 1387 qui a Tangeri, Marocco, porta dell'Africa.
Dal porto vedi la casbah che svetta candida intonacata sopra il promontorio, la vedi e devi salirci, entrarci, camminare nei caruggi stretti ed alti come canyon di finestre da dove trasudano bambini che piangono e radio di tamburi, pifferi e oud.
Ti siedi dentro un bicchierino di te', ti fai zuccherare forte e sciogliere con rametti di menta, mischiando bene senza usare cucchiaino, versando la cerimonia liquida di un filo bollente che cala da bicchiere a teiera, da teiera a bicchiere, da bicchiere a teiera.
Osservi il nuovo panorama.
L'inverno e' una condizione mentale, fa' caldo ma la gente si copre con giacche e maglioncini. Passano enormi gnomi vestiti con pesanti djellaba marroni dal cappuccio a punta che coprono il corpo fino alle caviglia. Passano piccole pellicce di pelo made in China.
Ci sono ragazze che spudorate vestono jeans e giubbottino D&G ma le tante si coprono collo capelli e corpo con un velo scuro.
Copacabana e' lontana molto piu' delle miglia di sola acqua per una settimana.
Dal tanga alla tonaca.
Le tue narici sorridono.
Dopo una settimana di pulizia nell'aria di sale ora sono porte aperte a nuovi incontri.
Piacere cannella.
Cardamomo, cumino, chiodo di garofano arrivano subito dopo a stringerti la mano, salam alekum, ad accerchiarti con complicita', schiacciando un occhio per farti capire che se ti serve qualcosa.
Trenta di loro ridotti in polvere e mischiati sono i servitori del Couscous Royale.
Lasci la collina casbah e scendi verso il porto.
Nordinne parla italiano.
E' da quattro mesi che tutte le mattine viene qui per attraversare lo Stretto di Gibilterra e tornare a casa, a Monza.
A volte si imbosca tra le merci di un cargo, altre nel retro di un camion, un posticino in un canotto. Sempre preso e rimpatriato.
Aveva un lavoro redditizio e una clientela fedele che ora spera di recuperare al rientro.
Spacciatore di hashish e cocaina al parco dell'autodromo.
Arrestato tre volte, l'ultima rispedito a Casablanca.
Ha nostalgia della famiglia, di suo figlio e di sua moglie napoletana, della pizza, della Gazzetta.
Chiede due dirham per comprarsi una sigaretta, se l'accende e si appoggia con le spalle al muro, guardando fisso avanti a se' l'altra costa nascosta.
Qui non e' come in Italia, dice, la liberta' e' solo di facciata.
In Marocco non c'e' Striscia La Notizia.

Macondo, Tangeri, Marocco, Giorno 423

lunedì 9 novembre 2009

Oceano Atlantico (...)

1 Novembre 2009 (5°35' S 34°57' W)
Porto di Natal
3011 miles to go

Di corsa.
Perche' devo correre ?
Perche' devo far tutto di fretta, comprare un berimbau, fermarmi a raccontarla con i tipi della capoeira, acchiappare l'ascensore per salire al Pelourinho, prendere un taxi al volo, scendere al terminal rodoviario, salire i gradini tre a tre per comprare, spero, un biglietto per il bus che parte in dieci minuti e mi dovrebbe portare al cargo ancorato a Natal, ventisei ore da qui ?
Perche' sempre cosi' dico io ?
Perche', non posso farne a meno, fino all'ultimo non posso alzarmi da tavola, devo mangiare quello che posso, le briciole tutte.
E anche perche' sono un pirla.
Ho rischiato di perdere l'unica nave che nel prossimo mese attraversa l'Oceano Atlantico, col biglietto gia' comprato, ieri, giusto per fluire.
Pero' alla fine missione compiuta.
Con addirittura venti minuti di anticipo sulla partenza.
Posso comprarmi l'ultimo suco con salgado. Coxinha e suco do abacaxi (arancino a forma di coscia di pollo ripieno di coscia di pollo e succo d'ananas) con cannuccia bella dritta al centro del bicchiere, test superato cosi' che mi prendo un altro succo doppio alla maracuja. Giusto per non lasciare il banchetto ancora con qualche voglia.
Altre voglie con Federica, pelle chiara, bionda e occhi azzurri come le federiche che fanno a Binasco ma non cosi' buone come piacciono a me. Del mio stesso ostello, svedese del sud, ventun anni in giro per il Brasile a capire il resto della sua vita.
Lei si prende la spiaggia tropicale di Praia da Pipa, io tutta l'acqua che sta davanti.
Attraversiamo tutta la costa tropicale del Pernambuco ed arriviamo a Natal senza problemi. Con 25 dei 28 reales rimasti arrivo al porto in taxi. Tre reales giusti giusti per un succo.
La nave non e' ancora partita.
Sospiro di sollievo.
Si chiama Homere.
Doh !!!
Sdaraiata al porto le stanno riempiendo la panza di cubettoni di alluminio ripieni di birra Duff e ciambellone ricoperte di glassa al cioccolato, motociclette, frigoriferi, banane, lavatrici, gamberetti ibernati e sculture tedesche di sesso estremo.
Lascio il berimbau e lo zainotto nell'ufficio della compagnia navale e vado a farmi un giro.
E' domenica ed e' tutto deserto.
Scenario post-nucleare dove le gru governano un mondo disabitato ed arrugginito.
Finisco in una favela.
Scatto foto a bambini neri riccioli neri, a uomini con in mano pesci tropicalmente giganteschi, a barche da pesca di legno pastello, al mio ultimo tramonto sudamericano.
Un viado con giarrettiera e culo in mostra mi dice di guardare.
Si si si. Pero' non e' esattamente il modello di giarrettiera che mi piace.
Attento !
Att....
Una sirena lampeggiante alle mie spalle mi intima di fermarmi.
Scendono due tipi con pistolazze e manganelli.
Attento alla pula, testone.
Mi chiedono il passaporto, mi aprono la borsa delle foto e trovano la carta dov'era avvolta la coxinha, tenuta come ricordo.
La annusano.
Niente erba, niente coca, non sono un trafficante, solo uno che mangia pollo.

...continua